domenica 20 luglio 2008

Il Piccolo Demone

Premesse: Non sono un esperto, se ho commesso errori me lo si faccia notare, è inoltre utile precisare che in tutte le rilevazioni, il mezzogiorno mostra una maggiore propensione per i contratti flessibili, questo anche per la minor prosperità economica del sud italia. Le parti in corsivo sono estratti integrali dai rapporti della banca d'Italia, assolutamente riportati fedelmente

Sono sempre stato incuriosito di come davvero fosse andato il mercato del lavoro intorno al periodo della famigerata legge Biagi (effettiva applicazione fine 2003).
Così ho tentato, data la mia non-competenza in materia, di fare un’analisi generica degli anni 1993-2007 con semplice enunciazione di dati e del periodo 2003-2007 leggendo e commentando i rapporti della Banca d’Italia e Istat.
Cosa ne è venuto fuori?
Vedrete.

Poco prima, qualche tabella fatta da me sui dati ISTAT; la prima riguarda l’andamento cronologico dei contratti permanenti e non riguardo al totale dei contratti dipendenti, la seconda riguarda la composizione di questi andamenti. Sotto anche qualche grafico e infine una tabella dell'andamento dei contratti dipendenti sul totale occupati.

2003
Cominciamo il nostro viaggio nel 2003, tra le varie considerazioni che sul rapporto sul mercato del lavoro della Banca d’Italia vengono fatte, ne ho estrapolate alcune per portarle con me nel mio viaggio; farò così per ogni anno analizzato.

“L’utilizzo di forme di rapporto contrattuale più stabili negli ultimi anni è riconducibile a vari fattori.
Tra il 2000 e il 2002 carenze di manodopera diffuse in molte aree del Paese e storicamente ampie possono aver accresciuto la probabilità dei lavoratori di ottenere posizioni a tempo indeterminato.
Un secondo fattore è rappresentato dalla riduzione delle uscite dal mercato del lavoro dei lavoratori cinquantenni, occupati prevalentemente in posizioni permanenti, anche per effetto dell’innalzamento dei requisiti di età per il collocamento a riposo previsto dalle riforme previdenziali degli anni novanta”

“Infine, fino al 2002 uno stimolo significativo è derivato dal credito d’imposta per l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori adulti, previsto dalla legge 23 dicembre 2000, n. 388, e sospeso nel luglio di quell’anno a causa del costo per l’erario, rivelatosi molto superiore alle previsioni”

Prima del 2003, in sostanza, il mercato del lavoro vive un bel momento, suffragato anche dai grafici, per il fatto che c’è carenza di manodopera, cioè c’è lavoro, ma non lavoratori, quindi il singolo lavoratore ha più potere e diventa più importante per l’azienda, in quanto diventa una risorsa scarsa.
Tutto questo unito al fatto che una insistente distorsione di mercato (il credito di imposta) favorisce ad assumere a tempo indeterminato.
Nel periodo in esame, nel 2003, tuttavia si consolida una discesa dell’occupazione iniziata già nel 2002; quindi non si naviga in buone acque.

2004
“Nell’area dell’euro alla moderata ripresa dell’attività produttiva ha corrisposto una lieve accelerazione dell’occupazione”
Bene direi, si ricomincia a produrre, si creano posti di lavoro, l’occupazione può riprendere (con il credito d’imposta ridotto tra l’altro).

“La quota dei lavoratori assunti con un contratto a tempo determinato, rispetto al totale dei dipendenti, è scesa di 0,5 punti percentuali nel 2004, all’11,8 per cento. La riduzione, in atto dal 2000, discende da fattori ciclici e strutturali (cfr. la Relazione sull’anno 2003); a essa non corrisponde un aumento della probabilità di trovare un lavoro con contratto a tempo indeterminato per i più giovani.”

Quindi, ricapitolando, il 2004 era il grande anno in cui dimostrare che il lavoro precario (tecnicamente è scorretto chiamarlo precariato, perché precariato e flessibilità non sono sinonimi), avrebbe invaso le nostre case e strappato via il cuore ai nostri figli.
Risultato? Diminuzione rispetto all’anno precedente del 3,2% dei contratti flessibili, temporanei o precari, come preferite chiamarli.

2005
Il 2005 è l’anno della ripresa, se osservate i dati vedrete chiaramente un’impennata dell’occupazione sia flessibile sia permanente, ma urge fare le seguenti osservazioni per inquadrare meglio i dati.

“Negli ultimi tre anni la crescita della domanda di lavoro si è progressivamente affievolita, riflettendo la debolezza dell’attività produttiva e un aumento del costo del lavoro, nel settore privato dell’economia, superiore a quello del deflatore del valore aggiunto, anche per il venir meno degli incentivi all’occupazione”

Negli ultimi tre anni (2002, 2003, 2004) la crescita della domanda si è affievolita riflettendo una cattiva congiuntura in produttività e in costo del lavoro.

“La riduzione dell’occupazione autonoma è di entità senza precedenti negli ultimi trent’anni ed è quasi interamente concentrata tra i coadiuvanti nelle imprese familiari (-25,7 per cento), i soci di cooperative (-28,3 per cento), le collaborazioni coordinate (-3,6 per cento) e le prestazioni d’opera occasionali (-24,3 per cento), posizioni ricoperte prevalentemente da giovani donne; tra il 2004 e il 2005 un quinto di questi occupati è uscito dalle forze di lavoro, il 14,9 per cento ha trovato un impiego permanente e un ulteriore 4,3 per cento uno temporaneo; i rimanenti non hanno cambiato posizione professionale. Lo spostamento di una parte di queste figure verso l’occupazione dipendente può essere legato all’utilizzo da parte delle imprese dei nuovi strumenti contrattuali previsti dalla cosiddetta legge Biagi (legge 14 febbraio 2003, n. 30), ma anche all’entrata a regime della Rilevazione sulle forze di lavoro che ha affinato la capacità di individuare con precisione la posizione professionale dei lavoratori. Nella media del 2005 i lavoratori autonomi occupati con contratti di collaborazione coordinata o di prestazione occasionale d’opera erano 457 mila, pari al 2,0 per cento dell’occupazione totale”

Vengono usate nuove modalità contrattuali e soprattutto affinate delle tecniche di rilevazione che portano ad aggiungere all’ammontare dei dipendenti temporanei alcuni lavoratori fino a quel momento considerati indipendenti.

“Sulla base della Rilevazione sulle forze di lavoro, si stima che tra coloro che nel 2004 erano occupati con un contratto di lavoro a tempo determinato (pari a 1.909 mila), dopo un anno il 51,4 per cento non aveva cambiato tipo di contratto, il 25,4 per cento aveva trovato un lavoro a tempo indeterminato, il 3,5 era occupato come lavoratore autonomo e il restante 19,7 per cento era uscito dal mercato del lavoro (tav. B22). Avevano trovato una posizione permanente con più facilità i maschi rispetto alle donne, i lavoratori di età compresa tra i 15 e i 34 anni rispetto a quelli più anziani, gli occupati del Nord e del Centro rispetto a quelli del Sud. Il tipo di contratto a tempo determinato incide fortemente sulla probabilità di trasformazione in lavoro stabile. Chi era stato occupato nel 2004 con un contratto a causa mista (contratti di formazione e lavoro o di apprendistato, che in media nel 2004 avevano una durata di 26 mesi) aveva una probabilità del 35,5 per cento di trovare un’occupazione a tempo indeterminato dopo un anno e una del 12,9 per cento di perdere il lavoro. Per gli stagionali e le persone con una delle altre forme contrattuali a tempo determinato le prospettive erano assai più precarie, anche per la breve durata dei rapporti di lavoro.”

Non sono anni evidentemente facili, considerando i tassi di trasformazione da contratti flessibili a contratti a tempo indeterminato: il 25,4% (sempre comunque meglio dei tassi di trasformazione del periodo 2003-2004, anni di flessione lavorativa dei cococo. Solo il 5% dei cococo viene trasformato a tempo indeterminato)

2006
“In un contesto di perdurante moderazione salariale, l’accelerazione dell’occupazione ha riflesso essenzialmente la ripresa dell’attività produttiva; l’impulso fornito dalla domanda di beni e servizi ha contrastato un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto ancora superiore a quello del deflatore del valore aggiunto. Per la prima volta
dal 1995 nel comparto della manifattura, dove il deflatore del valore aggiunto ha registrato un inusuale calo, la crescita dell’occupazione si è accompagnata con un aumento della produttività del lavoro.”

Si mantiene il ritmo del 2005 di ripresa della crescita della produttività.

“Nel 2006 solo meno della metà della maggiore occupazione alle dipendenze ha assunto la forma di impiego a tempo indeterminato, concentrandosi quasi esclusivamente al Centro Nord (169 mila persone); oltre un quarto del maggior numero di occupati a tempo determinato era invece residente nel Mezzogiorno (55 mila persone).
Il lavoro a carattere temporaneo, la cui quota sull’occupazione alle dipendenze è aumentata dal 12,2 al 13,1 per cento, riguarda per oltre metà le donne, che invece costituiscono solo il 41,3 per cento dell’occupazione a tempo indeterminato, e per circa due quinti i residenti nel Mezzogiorno (22,7 per cento dell’occupazione a tempo indeterminato).”


Precisamente flessibile il 51,3 e a tempo indeterminato il 48,7

2007
“Nel 2007 è proseguita la crescita dell’occupazione, anche se a ritmi inferiori a quelli elevati dell’anno precedente. Essa è stata sostenuta dall’espansione della produzione e favorita dalla perdurante moderazione salariale. Il tasso di disoccupazione è ancora sceso, riportandosi sui livelli dei primi anni ottanta. La crescita del numero degli occupati è stata in larga parte alimentata dalla componente straniera; è ulteriormente aumentata l’incidenza degli occupati a termine e a tempo parziale.”

Sembra dunque ragionevole pensare che gli stranieri concorrano ad incrementare il tasso di lavoratori flessibili (la maggior parte degli stranieri che giunge in Italia è diplomata ed ha lo status di operaio)

“Secondo l’indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia, nel biennio 2005-06, nonostante il lento andamento delle retribuzioni unitarie, il complesso dei redditi familiari netti è cresciuto a un tasso annuo del 2,1 per cento in termini reali, sospinto dalla crescita dell’occupazione. Il livello di disuguaglianza nei redditi familiari, quasi invariato
rispetto al 2004, si mantiene elevato nel confronto internazionale; esso riflette anche i notevoli divari di reddito tra le famiglie del Mezzogiorno e del Centro Nord.”

Bene dunque i salari, che crescono sospinti dall’occupazione

“Nel 2007 l’aumento dell’occupazione alle dipendenze ha riguardato per quattro quinti posizioni lavorative a tempo indeterminato (1,4 per cento, 206.000 persone). L’occupazione temporanea è cresciuta a un ritmo più sostenuto (2,1 per cento, 47.000 persone), raggiungendo il 13,2 per cento del totale dell’occupazione dipendente. Nel 2007 oltre il 90 per cento degli occupati a tempo determinato dichiarava di svolgere un lavoro a termine perché non aveva trovato un impiego permanente (erano l’80 per cento nel 2004).
Le posizioni di lavoro a termine hanno un’incidenza particolarmente elevata tra quanti trovano un impiego muovendo dalla condizione di inoccupato (fig. 9.2). Complessivamente gli occupati dipendenti a termine, i collaboratori a progetto e i lavoratori occasionali costituivano nel 2007 il 45,5 per cento di coloro che avevano trovato un impiego negli ultimi dodici mesi; l’incidenza è più elevata tra i giovani e sale al crescere del titolo di studio (58,2 per cento tra i laureati).”


Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i laureati sono più incidenti rispetto al resto dei lavoratori giovani sul lavoro flessibile.
La situazione migliora comunque rispetto all’anno precedente riguardo le quote di aumento del lavoro a tempo indeterminato.

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Finita l’analisi cronologica passiamo a qualche considerazione.

“Tra il 1995 e il 2000 l’incremento dell’occupazione era avvenuto per il 46 per cento in posizioni a termine, per il 42 per cento in posizioni a tempo indeterminato e per il 12 per cento in attività autonome”

Tra il 2001 e il 2006 invece l’incremento dell’occupazione è avvenuto per 48500 posti in posizioni a termine, per 245666 posti in posizioni a tempo indeterminato e per -21650 posti in posizioni di lavoro indipendente.
L’incremento sul totale del lavoro è stato di 272516 posti.
L’incremento indeterminato è avvenuto per il 90%, l’incremento flessibile per il 18%, mentre il decremento del lavoro indipendente è avvenuto per il -8%.
Inoltre l’andamento del grafico a barre mostra che i contratti a termine hanno avuto un’impennata tra gli anni 2005-2007, con un evidente segno di discesa progressiva nel 2007.

Può essere ragionevole pensare che la legge Biagi non abbia creato precarietà crescente poiché una legge simile era già stata introdotta nel 1997 con il nome di pacchetto Treu, nei primi anni si è visto un incremento del lavoro flessibile, mentre negli anni dal 2001 al 2004 si è assistito ad una crescita molto stagnante e talvolta ad una decrescita; di certo concorre alla crescita del lavoro temporaneo, ma non credo si possa stabilire un netto collegamento, anche perché un’impresa, secondo i modelli economici, funziona bene con un determinato numero di dipendenti, e perde produttività sia mancando sia eccedendo, di conseguenza è certamente giusto pensare che un abbassamento del costo del lavoro (i contratti della Biagi hanno un costo minore di un contratto a tempo indeterminato, ma non per questo sono utilizzati dalle aziende) possa concorrere ad aumentare il numero dei dipendenti, ma è scorretto supporre che le aziende ricorrano a questi contratti per motivi di costo, almeno nel nord-est, come rivela un’analisi effettuata dal sole24ore sui dati della cassa di risparmio di Padova e Rovigo e la fondazione Nordest: il campione interpellato è di 1000 aziende con più di 10 addetti, solo il 40% delle aziende interpellate ha usufruito dei nuovi contratti della Biagi.
Veniamo dunque alle motivazioni, solo il 13% delle imprese interpellate che ha usufruito delle nuove modalità contrattuali l’ha fatto per motivi di minor costo, mentre ben il 75,1% lo fa per motivi organizzativi dell’azienda, infine, la percentuale delle aziende che adottano contratti flessibili per esigenze del lavoratore è il 12,3%.
Sempre secondo l’indagine, il 70% degli imprenditori ha dei dubbi sul fatto che questa normativa abbia reso più flessibile il mercato del lavoro.
Dunque secondo questi dati, la legge Biagi non ha influito se non in minima parte sull’andamento dei contratti flessibili.

Inoltre sempre secondo un articolo basato su un rapporto di Confindustria sul mercato del lavoro 2007 http://www.provincia.lecco.it/documenti/rassegna/lavoro/venerdi.pdf la legge Biagi favorisce l’ingresso nelle aziende, come viene naturale pensare.

E’ invece totalmente fuori dalla realtà pensare che i contratti flessibili stiano sostituendo quelli fissi, affermazione che è infatti sconfessata dall’andamento mostrato nei grafici: di netta e costante crescita per il lavoro a tempo indeterminato e di altalenante crescita del lavoro a tempo determinato, d'altronde è anche facilmente comprensibile il perché il primo andamento sia più uniforme del secondo: i contratti a tempo determinato sono contratti che non vengono evidentemente usati con costanza, cioè non sono un fattore di norma del mercato, anche se sono certamente un fattore presente.

Se si osservano le percentuali su tutto il lavoro dipendente, si nota che piano piano i contratti flessibili hanno guadagnato terreno con alti e bassi (12,7 del 2000 e 11,8 del 2004), ma non bisogna cadere nell’errore di pensare che stiano erodendo le quote del lavoro indeterminato, anche perché , almeno nel 2005, l’aumento del lavoro a termine è influenzato dall’affinamento di nuove tecniche di rilevazione che erodono percentuali dal lavoro indipendente in favore del lavoro flessibile e tutto questo senza che possa esserci effettivo spostamento.

Se si considerano le percentuali della presenza di lavoro a tempo indeterminato e flessibile sul totale degli occupati, si può notare come sia aumentato il numero di contratti a tempo determinato e quello a tempo indeterminato sia rimasto invariato, se la matematica non è un’opinione, essendo stato considerato sino ad ora il lavoro dipendente, l’unica cosa che può bilanciare l’equazione è una diminuzione del lavoro indipendente.

Concludendo il tutto?
È aumentato il lavoro flessibile, il lavoro a tempo indeterminato non è stato eroso e il lavoro indipendente ha perso quote cedendole al lavoro flessibile (vedi rapporto 2005).
Quindi al massimo più che di una precarizzazione dei dipendenti si potrebbe parlare di una precarizzazione degli indipendenti, tutto il contrario di quello che si afferma oggi, ma anche qui bisogna andare con i piedi di piombo, perché è chiaramente scritto nel rapporto del 2005 (della Banca d’Italia sui dati Istat) che sono state modificate le tecniche di classificazione e rilevazione, quindi è perfettamente possibile che nessuno abbia eroso le quote di nessuno.

PS
RAPPORTO Banca d'Italia 2006
“Sulla base delle informazioni disponibili nella Rilevazione sulle forze di lavoro è possibile stimare che circa un quinto delle persone in cerca di lavoro trovi un impiego nei successivi tre mesi; la quota è intorno al 30 per cento per coloro che sono alla ricerca da meno di sei mesi. Circa un terzo delle persone che hanno trovato lavoro nei tre mesi precedenti dichiara di essere alla ricerca di un nuovo impiego, segnalando la difficoltà dei disoccupati a individuare un impiego consono alle proprie caratteristiche. Un sistema di ammortizzatori sociali contribuisce a rendere più efficiente questo processo di transizione, alleviando i costi connessi con la mancanza di reddito durante i periodi di disoccupazione; d’altra parte, se mal disegnato può determinare un prolungamento eccessivo del periodo di non occupazione. L’Italia si caratterizza per un sistema frammentato e con pochi controlli, che copre solo parte dei lavoratori ed eroga importi generalmente più bassi che negli altri paesi europei: nel 2005 le prestazioni sociali connesse con lo stato di non occupazione ammontavano complessivamente allo 0,6 per cento del PIL, contro una media di circa l’1,3 per cento nella UE; l’indennità ordinaria di disoccupazione ammontava al 50 per cento dell’ultima retribuzione (circa il 70 per cento nella UE).”

“Nel 2001 sono state modificate le indennità di disoccupazione ordinaria, con il prolungamento da 6 a 9 mesi della durata massima per i lavoratori con almeno 50 anni e l’aumento dell’indennità dal 30 al 40 per cento dell’ultima retribuzione mensile, un livello basso nel confronto internazionale. Nostre stime preliminari degli effetti di breve periodo di tali cambiamenti condotte con riferimento agli anni 1997-2002 sul Campione longitudinale degli attivi e dei pensionati (CLAP) indicano che la lunghezza del periodo di ricerca di lavoro non è correlata con la durata massima dell’indennità, mentre aumenterebbe per effetto dell’incremento della sua entità.”

Da precisare che gli ammortizzatori sociali ci sono.