venerdì 28 novembre 2008

Tra Razzismo e Immigrazione

[Premessa: il lavoro ammetto è stato molto faticoso, sia perché i dati talvolta mancano sia perché la componente irregolare non è facile da stimare.
In ogni caso come al solito invito tutti coloro che ne sanno qualcosa a contribuire in modo da correggere eventuali errori o imprecisioni.]

Si sente spesso parlare dell’emergenza razzismo in Italia.
Mi sono posto l’obiettivo di cercare di spiegare (non di giustificare) la situazione attuale dell’immigrazione, della presenza straniera regolare e irregolare in Italia e ciò che questa riguarda.
Ci sono due tipi di fonti in questo campo: molte ONG, organizzazioni non governative e le fonti governative; mi sono concentrato sulle seconde, per avere un quadro il più possibile coerente.
Ho articolato il mio lavoro per punti, cosicché possa essere più facile consultarlo.

1) A quanto ammonta la popolazione degli stranieri in Italia?
La popolazione degli stranieri presenti in Italia si può osservare mediante due indici: stranieri (senza cittadinanza) sul totale dei residenti e stranieri nati all’estero sul totale dei residenti.
Il limite del primo indice riguarda il fatto che non tiene conto degli stranieri che acquisiscono la cittadinanza, perché scompaiono dalle statistiche come stranieri e il limite del secondo è che non tiene conto dei figli degli immigrati nati in Italia, che per qualsiasi motivo non hanno una cittadinanza.
Partiamo dal primo.
Nel 2007 in Italia ci sono 2.938.900 stranieri senza cittadinanza (non siamo affatto ai primi posti per numero in Europa), circa il 5% della popolazione totale italiana.
Si può notare, facendo un grafico dei valori assoluti degli stranieri presenti, che l’incremento più ingente si è verificato nel periodo 2003-2007, nel quale la percentuale di Stranieri sui residenti è passata dal 2,7% al 5%.



In un paese come la Francia per esempio, la quota di stranieri senza cittadinanza sul totale dei residenti è più o meno invariata nel tempo recente, questo potrebbe essere dovuto al fatto che: o hanno proporzionato le concessioni di cittadinanza all’incremento annuale di stranieri che si verificava, o non è arrivato alcun nuovo straniero.
Facciamo un esempio: al 2000 ci sono 100 stranieri in Francia, ponendo il saldo iniziale 0 e l’arrivo fisso di immigrati ogni anno, al 2001 dovremmo avere 200 stranieri non cittadini, invece ne abbiamo ancora 100, questo vuol dire che o non ne sono arrivati e nessuna cittadinanza è stata concessa (ma è un esempio alquanto bizzarro) oppure quelli del 2000 sono diventati tutti cittadini e ne sono giunti ancora 100.
Sono esempi estremi, ma il secondo esempio è più plausibile del primo, la verità starà nel mezzo, cioè che ne saranno arrivati un po’ meno e avranno concesso molte cittadinanza (tenderei ad escludere il fatto che se ne siano andati).
Quindi da un semplice esempio risulta che, anche se la Francia (secondo i dati del rapporto in esame) ha più stranieri senza cittadinanza dell’Italia, arrivano meno stranieri e il processo di naturalizzazione è più forte di quello Italiano.
Anche il Belgio è un esempio molto interessante e simile a quello francese, come la Danimarca e la Germania.
L’unico dato che si può estrapolare dal secondo metodo di rilevazione (essendo presente solo il valore del 2001) è che la quota di stranieri è quasi identica alla quota di quelli nati all’estero presenti in Italia.
Questo significa che quasi tutti gli stranieri non cittadini sono stranieri nati all’estero e appunto significa che ci sono pochi stranieri diventano cittadini in Italia, perché altrimenti i dati dovrebbero essere molto discordi.
Purtroppo su questa categoria di dati le analisi sono instabili a causa appunto della carenza.

2) Com’è strutturata la popolazione straniera in Italia?
Per esaminare la popolazione straniera in Italia possiamo utilizzare anche qui due fonti: il numero di permessi di soggiorno rilasciati dalla questura (stranieri regolari) e i dati provenienti dall’anagrafe.
Entrambe queste rilevazioni non tengono conto degli immigrati irregolari e la prima esclude i figli di immigrati perché essendo a carico dei genitori non hanno permesso di soggiorno.
Le due fonti si integrano, dalla prima attingiamo al numero degli stranieri con regolare permesso di soggiorno e dalla seconda possiamo prelevare il numero dei figli di immigrati.
Dalla prima fonte apprendiamo che in Italia ci sono 2.414.972 stranieri con regolare permesso di soggiorno, il picco maggiore di emissione di permessi di soggiorno si ha nel 2004 per effetto delle cosiddette regolarizzazioni: dal numero di 1.503.286 al valore di 2.227.567, esattamente 724.281 permessi di soggiorno rilasciati.
Questo dato generico diventa molto interessante se confrontato con le varie zone d’Italia.
I permessi di soggiorno emessi nel Nord sono più della metà del totale dei permessi emessi in tutta Italia, e quindi superano persino la somma dei permessi emessi nel Centro e nel Sud.
Nel Nord Italia i permessi di soggiorno emessi sono aumentati per effetto dell’aumento degli immigrati, nel Sud Italia sono addirittura diminuiti.



Sono possibili a mio parere due analisi alla luce di questi dati: o al Sud c’è una maggior propensione all’irregolarità e quindi ci sono meno stranieri con i permessi di soggiorno, oppure tutti gli stranieri che arrivano migrano al Nord in cerca di migliori condizioni economiche (non dimentichiamo che il PIL del Sud Italia è nettamente inferiore al PIL del Nord Italia).
Come possibile, la verità starà nel mezzo: al Sud figurano meno stranieri con permesso e quindi irregolari, ma d’altro canto non ci sono molti stranieri (regolari e non) perché chi può migra al Nord in cerca di lavoro.
Inoltre come citato nel rapporto Istat 2007:

“Ad attrarre gli stranieri sono soprattutto i sistemi non manifatturieri (oltre 1,4 milioni di individui, pari al 48,2 per cento del totale) e i sistemi del made in Italy (oltre 1,1 milioni, pari al 37,5 per cento del totale), nei quali si concentra l’86 per
cento della popolazione straniera residente in Italia. In particolare essi risultano concentrati soprattutto nelle aree urbane ad alta specializzazione e nei sistemi della fabbricazione di macchine (Tavola 3.6). Si deve sottolineare però che la presenza di popolazione straniera nei sistemi locali con differenti specializzazioni produttive prevalenti non implica necessariamente l’impiego della medesima forza lavoro all’interno di quello specifico settore della produzione. Come è noto, infatti, gli stranieri si collocano spesso in nicchie del mercato del lavoro e danno luogo a forme di specializzazione etnicamente connotate.”

Veniamo ora a come è strutturata la popolazione straniera, da chi è composta.
Recentemente il divario tra immigrati di sesso maschile e femminile è stato colmato per merito dei ricongiungimenti familiari; infatti l’immigrazione in Italia ha mostrato segni di assestamento, divenendo meno eterogenea che in passato in quanto ad etnie migranti.
I primi paesi che figurano tra i maggiori apportatori di immigrati in Italia sono: Albania, Romania, Marocco, Cina, Ucraina.
Il rapporto Immigrazione Barbagli inoltre afferma:

“La tab. XIII.2, che ricordiamo è relativa alla sola Lombardia, ci dice che l’incidenza di irregolari varia nel tempo, e a seconda della nazionalità. Le nazionalità le cui migrazioni in Italia risalgono più indietro nel tempo hanno percentuali di irregolari comparativamente inferiori. Oggi Sri Lanka, Cina, Filippine, Albania, India, Pakistan, Marocco, Senegal, Tunisia hanno quote relativamente modeste di irregolari. Sono invece particolarmente elevate le presenze irregolari di coloro che provengono dai paesi dell’Europa orientale, come Romania e Ucraina. Che le migrazioni provenienti dall’Europa orientale abbiano livelli relativamente superiori a quelli della altre migrazioni sembra confermato anche da indagini campionarie limitate ad alcune specifiche nazionalità, in alcune regioni del paese. Un’indagine condotta ormai alla fine degli anni Novanta in Campania, Lazio e Veneto, mostrava – per esempio – quote elevate di illegali nella
popolazione di origine polacca e albanese. Tra i polacchi in Campania, ad esempio, questa quota raggiungeva l’87%”

I dati sono relativi solamente alla Lombardia, ma non vedo perché non possano essere estesi al resto d’Italia.

3) Perché si possono verificare episodi di razzismo in determinate zone d’Italia?
Il discorso come ben si può immaginare è complesso.
Può essere utile partire da qualche considerazione presa direttamente dal rapporto annuale Istat 2007

“Gli stranieri denunciati nel 2006 sono stati oltre 100 mila. La quota degli stranieri sul totale dei denunciati varia però molto in base al tipo di reato commesso. Secondo i dati forniti dal Ministero dell’interno la quota di stranieri è minima nel caso delle rapine in banca o presso gli uffici postali (rispettivamente 3 e 6 per cento) e molto elevata nel caso dei borseggi (furto con destrezza),
praticati in sette casi su dieci da uno straniero.
Quanto ai reati violenti, un terzo è compiuto da stranieri: si va dal 39 per cento dei denunciati per violenze sessuali al 36 per cento degli omicidi consumati e al 27 per cento dei denunciati per lesioni dolose.
[…]
Ve ne sono alcuni che vengono commessi quasi esclusivamente da irregolari e altri, invece, che vengono in parte compiuti anche da regolari. Tra i primi, con quote intorno all’80 per cento, vi sono i reati contro la proprietà (soprattutto borseggio, furto di automobile o in appartamento). Tra i secondi, in cui le quote di irregolari tra i denunciati si aggirano intorno al 60 per cento, vi sono la rissa, le lesioni dolose, la violenza carnale, lo sfruttamento della prostituzione, il contrabbando e le estorsioni (Figura 5.17).”

Ma almeno per gli omicidi non c’è poi così tanto da preoccuparsi:

“In circa tre casi su quattro la vittima di un omicidio effettuato da uno straniero è a sua volta uno straniero. In particolare, spesso vittima e assassino hanno la stessa nazionalità: sembrerebbe quindi che la crescita degli omicidi che vedono coinvolti gli stranieri sia collegata più a questioni interne al gruppo che contro la società italiana nel suo complesso.”

Forse non c’è un motivo specifico per il quale possano verificarsi, tuttavia è comprensibile il fenomeno nel Sud Italia, dove la presenza di immigrati Irregolari (secondo la fondazione Ismu) sul numero degli immigrati totali è maggiore che nelle altre regioni italiane (ilsole24ore del 12-05-08: “La rotta dei clandestini punta sulle città del Nord”).
Perché è comprensibile? Perché le province del Sud sono le uniche che presentano valori percentuali di irregolarità su stranieri totali di ordini superiori al 25% e inoltre perché il valore medio percentuale di irregolari del Sud è 23 irregolari su 100 stranieri visti; mentre quello del Nord è: 16,7 irregolari su 100 stranieri visti.
Se invece si esamina il valore medio percentuale degli irregolari sul totale dei residenti, troviamo che è il Nord al primo posto con lo 1,3% seguito dal Sud con lo 0,5%.
Questo cosa significa? Che al Nord ci sono più immigrati irregolari che al Sud, ma al Sud il tasso calcolato sul totale di stranieri è più alto perché ci sono meno stranieri regolari.
In sostanza nel Sud Italia ho una minore possibilità di incontrare uno straniero irregolare in una folla mista, ma se dovessi capitare in una folla di stranieri la probabilità di incontrarlo è assai maggiore; al Nord accade il contrario.
Al Sud quindi ci sono pochi stranieri e di quei pochi che ci sono una buona parte sono irregolari, mentre al Nord ci sono molti stranieri e pochi irregolari rapportati agli stranieri.
E’ quindi possibile che al Sud uno straniero sia giudicato male in quanto tale dato il maggior tasso di irregolarità tra stranieri ed è possibile il proliferare di reati contro lo straniero, anche da parte degli altri stranieri regolari.
Mentre al Nord la presunta minaccia non è legata tanto all’irregolarità, ma alla semplice maggior presenza.
L’incendio del campo Rom a Napoli (azione da condannare e punire) si può quindi comprendere (ma ovviamente non giustificare) perché la città di Napoli presenta un tasso di irregolari sul totale stranieri del 31,7%.
E’ perfettamente possibile che molti altri episodi si possano spiegare in questo modo.
Giusto per essere completi, la stima del numero di immigrati irregolari in Italia a 650.000 nel 2008 (la fonte è sempre la Fondazione Ismu).

4) Come i giornali parlano del fenomeno dell’immigrazione e ciò che è a questo correlato?
L’analisi effettuata nel documento sull’immigrazione del ministero dell’interno (Barbagli), effettua l’analisi su 3 giornali diffusi tra la popolazione: La Stampa, Repubblica e Il Corriere della Sera.
Dai dati emersi si estrapolano parecchie considerazioni, vediamone qualcuna presa direttamente dal documento:

“l’intensità dell’interesse per il tema varia più volte sul lungo periodo: dopo una fase di basso interesse per il tema un improvviso picco scatena un ciclo di attenzione relativamente di breve durata a cui fa seguito una fase di declino e, successivamente, una di interesse crescente nel lungo periodo, come si vede dalla forma a U – frastagliata dalla presenza di ulteriori cicli di breve durata – visibile in particolare nella parte centrale del grafico in figura XIV.1.
[…]
tanto nella fase declinante (ottobre ’90-luglio’92, e poi ancora fino all’inizio del 1994), quanto in quella crescente (tutto il periodo successivo fino al calo rapidissimo dopo l’entrata in vigore della Bossi-Fini, e la chiusura del provvedimento di sanatoria), l’andamento dell’interesse misurato in base al numero di articoli non è lineare ma caratterizzato dalla presenza di bruschi picchi di attenzione, tra cui se ne riconoscono otto principali, di cui parleremo più oltre, più i
quattro successivi alla sanatoria legata alla Bossi-Fini, e senza considerare un altro discreto numero di picchi di intensità inferiore.”

In questo caso si apprendono anche cose interessanti; per esempio la grande attenzione dei media oltre che a concentrarsi sui fatti in sé transita anche parecchio sul conflitto tra posizioni politiche:

“Se la ragione scatenante dell’interesse è un fatto di cronaca, a cui fa seguito una mobilitazione politica, già nel mese successivo agli articoli sull’omicidio si affiancano quelli relativi al dibattito sulla legge 39 del 1990, meglio nota come «legge Martelli»4. Nel febbraio del 1990 il numero di articoli è oltre tre volte superiore a quello del mese precedente, e nel mese successivo oltre otto volte. Senza il forte conflitto politico collegato alla legge Martelli, l’immigrazione difficilmente avrebbe potuto essere un tema da quasi tre articoli al giorno. Alla rapidità di crescita dell’interesse fa da contrappasso una grande rapidità nel calo dell’interesse stesso. Due mesi dopo il picco il numero di articoli è già tornato a una quota fisiologica”

Inoltre:

“sono sostanzialmente due i temi che innescano rilevanti cicli di attenzione sull’immigrazione nel nostro paese, riservandoci più avanti di analizzarli nel dettaglio. Il primo tema è, appunto, il dibattito sulla riforma della legge sull’immigrazione, che compare a ogni cambio di maggioranza, e che si accompagna a discussioni sulla ineluttabilità di una sanatoria, oppure ancora sui decreti flussi e la loro entità. Il secondo tema è costituito dagli sbarchi di clandestini sulle coste. Entrambi questi temi sono ciclici; pluriennale il primo, stagionale il secondo. Il primo compare infatti a cadenza quadriennale, in coincidenza con la proposta di riforma, e con l’unica eccezione della legge del tutto trascurata del 1986. Il secondo compare regolarmente in estate, nel periodo compreso tra maggio e settembre, e occasionalmente si accompagna a temi quali la sicurezza o la criminalità o la presenza di clandestini.”

Per avere conferma di tutto ciò basta osservare i grafici che illustrano alla perfezione queste osservazioni (disponibili nel documento).
Riassumendo dunque abbiamo: periodicità non dettata da un odio nei confronti degli immigrati, ma dettata dall’attenzione politica all’evento, cioè anche dal risalto parlamentare e legislativo che questa ha.

5) Esiste l’emergenza razzismo in Italia?
Prima di cominciare espongo il mio presupposto: parto dal presupposto che una persona condannata sia colpevole e una persona assolta sia innocente, cioè ritengo più attendibili per determinare il fenomeno i dati sui condannati piuttosto che le denunce, ma non mi esimerò dal riportare entrambi i dati.
Questa è la domanda a cui è più difficile dare risposta: l’ultimo annuario giudiziario penale dell’Istat risale al 2006 e riguarda l’anno 2004.
Nel 2004 le denunce per discriminazione razziale sono state 48, le condanne non sono dichiarate; le persone denunciate 57 e le persone condannate 15.
Nel 2003 le denunce per discriminazione razziale sono state 59, le condanne non sono dichiarate; le persone denunciate 100 e le persone condannate 5.
Nel 2002 le denunce per discriminazione razziale sono state 50, le condanne non sono dichiarate; le persone denunciate 112, e le persone condannate 28.
Nel 2001 le denunce per discriminazione razziale sono state 36, le condanne non sono dichiarate; le persone denunciate 17 e le persone condannate 6.
Del 2000 non ci sono dati disponibili dall’Istat.
Nel 1999 le denunce per discriminazione razziale sono state 49, le condanne non sono dichiarate; le persone denunciate 24 e le persone condannate non sono dichiarate.
Mostriamo qualche grafico di questo breve periodo e poi traiamo le conclusioni.



Sapete che considerazioni statistiche si possono fare? Nessuna.
I dati sono troppo pochi e troppo eterogenei tra loro per stilare un modus operandi di questi reati.
Inoltre i dati disponibili accertati e verificati sono disponibili fino al 2004, dunque lievemente datati, ma dato l’andamento precedente non si capisce perché ci sia così tanta certezza nell’emergenza razzista cioè di un aumento spropositato dei reati di razzismo in Italia.
L’unica spiegazione è che le ONG abbiano dati molto discordanti a riguardo o che semplicemente, come accade per qualsiasi cosa, si strumentalizzi politicamente la questione.
L’unica risposta che si può dare a questa domanda: “c’è l’emergenza razzismo in Italia?” è: non si può dare una risposta compiuta perché il nesso causale tra ciò che accade nel panorama politico italiano e il numero dei condannati è labile; basti pensare al dibattito sulla legge bossi-fini e alla questione di voto agli immigrati nel periodo 2002-2003, abbiamo due valori molto distanti di condannati, rispettivamente 28 e 5 negli anni 2002 e 2003, quando, se fosse come afferma chi sostiene la teoria: il razzismo aumenta se parli di più degli stranieri, si dovrebbero avere in entrambi i periodi valori alti.
Quindi chi afferma che l’Italia sia un paese razzista instilla nelle persone un senso d’essere circondato da mostri che ogni giorno compiono reati di discriminazione razziale, quando invece al massimo valore nel periodo esaminato, i condannati sono stati solo 28, cioè 4,8 ogni 10 milioni di abitanti.

Epilogo: quando usciranno futuri rapporti mi preoccuperò di seguire nuovamente l’argomento.

[Fonti:
“La rotta dei clandestini punta sulle città del Nord”, sole24ore del 12-05-08
“1° rapporto sugli immigrati in Italia” (detto anche rapporto Barbagli), Dicembre 2007, ministero dell’interno
Tavole delle statistiche giudiziarie penali a cura dell’Istat anni: 1999, 2001, 2002, 2003, 2004 (il 2000 non è disponibile)
“rapporto annuale, la situazione del paese nel 2007”, Istat]

lunedì 6 ottobre 2008

Colpo Mancato

Non è molto recente la polemica di Grillo sul fattaccio (a suo modo di vedere) accaduto a fine 2005, durante il mandato di Berlusconi; ecco a voi le mie osservazioni sul caso della famigerata: “abolizione del reato di colpo di stato”; articolo completo di Grillo a Questo Link

“Un blogger mi ha segnalato una modifica del Codice Penale che abolisce il reato di colpo di Stato.
Il “reato di colpo di stato” non esiste, al massimo si tratta di “attentato contro la costituzione dello stato”, ma non viene affatto abolito.
(bellissimo esempio di link richiama link perfettamente copiato, senza fonti e senza critica)

“E’ successo due anni fa, con il penultimo governo dello psiconano. Ma nessuno se ne è accorto. Lo ammetto, neppure io. Giornali e televisioni ripieni di giornalisti e direttori piduisti neanche. Si sono voltati dall’altra parte di fronte allo stravolgimento dell’articolo 283.”
Perché non dai un’occhiata agli articoli dei giornali on line? Per esempio quello del sole24ore?
Ti risparmio la fatica
http://www.ilsole24ore.com/fc?cmd=art&codid=20.0.1737298728&chId=30&artType=Articolo&DocRulesView=Libero

“Dal 2006 partiti, massonerie coperte e organizzazioni criminali possono fare un colpo di Stato senza conseguenze. Purchè non usino 'atti violenti’.”
Questo lo dici solo tu.
Un colpo di stato comprende molte aggravanti e riguarda più articoli penali, per abolire il colpo di stato dovresti abolire tutti gli articoli del codice penale di atti contro lo stato.

“Lo possono fare con la corruzione”
Riguardo ai reati finora da te citati, stai insinuando che non ci sia l’unico reato che in realtà è ben presente in parecchie forme e sfumature…

http://it.wikisource.org/wiki/Codice_Penale/Libro_II/Titolo_II#Art._314_Peculato
http://www.altalex.com/index.php?idnot=36766

“Con l’informazione deviata”
L’informazione è evidentemente deviata, perché come vedi, Grillo, sei tu che la devi.
Perché se il sole24ore ne parla e tu dici che non ne parla alcun giornale si chiama disinformare.

“Con i criminali in Parlamento sottratti alla scelta elettorale per l’abolizione della preferenza.”
Forse la preferenza, in vigore prima della nuova legge elettorale del 2006, escludeva i “criminali” dal parlamento?!
Ma ha già dimenticato i 25 condannati in parlamento tra il periodo 2001-2006 per i quali ha intrapreso la battaglia “Parlamento Pulito”?!

Come Grillo infatti non osa nemmeno pensare, perché sarebbe come dar credito a qualche dottore in giurisprudenza o alla fonte parlamentare (che è ovviamente di regime), ci sono dei bei motivi che muovono alla riforma operata nel 2006, alcuni di questi motivi traspaiono nel documento ufficiale, altri in un articolo a cura di Deborah Cimellaro e Giuseppe Buffone.
L’avvocata e il magistrato, firmano l’articolo (http://www.altalex.com/index.php?idnot=10386) che dice:

“le norme contenute negli articoli presenti nel titolo I del Libro II del Cod. pen., oggi novellati, sono il portato storico di una concezione politico–ideologica da tempo superata ed incompatibile con il nuovo assetto di valori delineato dalla Carta Fondamentale.
[…]
La dottrina (fra gli altri Fiandaca e Musco), pertanto, auspicava una lettura interpretativa che fosse sganciata dal concetto astratto di “personalità dello Stato”, inteso quale entità autonoma portatrice di interessi propri, e che privilegiasse la tutela degli elementi essenziali dell’ordinamento costituzionale improntato al metodo democratico, al pluralismo politico e soprattutto alla libertà di manifestazione del pensiero.
[…]
Con l’attuale disciplina, vengono espunte dal codice alcune fattispecie di delitti contro la personalità dello Stato che non hanno trovato larga applicazione e che non risultano più rispondenti alle mutate esigenze di tutela: è il caso della disciplina di cui agli artt. 269, 279, 279, 292-bis e 293 cod. pen.; altre ipotesi di reati, sempre inerenti alla manifestazione di opinioni ed ideologie politiche, di contro, sono stati riformulati in modo da presentare una connotazione maggiormente specifica rispetto alla dizione precedente, integrando la condotta perseguita non più meri “fatti diretti”, bensì “atti violenti diretti ed idonei” (così il nuovo testo degli artt. 241,283, 289 cod. pen.).”

Riassumendo, le norme:
1.
Hanno una connotazione politico-ideologica incompatibile con la Costituzione.
2.
Si riferivano allo stato in modo troppo protettivo e la modifica ne aumenta la democraticità
3.
Venivano poco applicate

Nel documento ufficiale (http://www.camera.it/cartellecomuni/leg14/RapportoAttivitaCommissioni/testi/02/02_cap07_sch10.htm) i motivi vengono in parte ricalcati e c’è qualche interessante aggiunta:

“La filosofia alla base dell’intervento del legislatore è stata quella di mitigare il rigore della legge in presenza di condotte riconducibili alla libertà di manifestazione del pensiero, di opinione, di associazione e di iniziativa o di associazione politica; ciò, anche in considerazione del fatto che si tratta, in generale, di delitti, per lo più introdotti nel periodo fascista, chiaramente finalizzati alla repressione degli oppositori allo stato dittatoriale.”

Riassumendo:
1.
Le norme avevano senso in epoca fascista e dittatoriale per proteggere lo stato
2.
Alcune condotte di manifestazione di pensiero potrebbero incappare in questi articoli, a giudizio del legislatore, ingiustamente

Quindi niente preparazione di un colpo di stato “pacifico” tramite corruzione e disinformazione, la prima prevista ben bene dalla legge e la seconda perpetrata da Grillo in qualità di paladino della SUA verità.

PS:
Per inciso, sulla polemica sul lodo Alfano, visto che si richiama la beneamata costituzione, è bene per Grillo&company sapere che fino al 1993 la Costituzione prevedeva la richiesta di autorizzazione a procedere per il procedimento penale (quindi per punire) che doveva essere fatta al parlamento; oggi quel che rimane è l’articolo della Costituzione sottostante

Art. 68
I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni.
Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell'atto di commettere un delitto per il quale è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza.
Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazione, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza.

E’ difficile credere che ciò sia stato un tempo contenuto nella nostra costituzione e che l’articolo 68 ancora è in vigore?!
No, è semplicissimo crederlo, basta informarsi.

domenica 20 luglio 2008

Il Piccolo Demone

Premesse: Non sono un esperto, se ho commesso errori me lo si faccia notare, è inoltre utile precisare che in tutte le rilevazioni, il mezzogiorno mostra una maggiore propensione per i contratti flessibili, questo anche per la minor prosperità economica del sud italia. Le parti in corsivo sono estratti integrali dai rapporti della banca d'Italia, assolutamente riportati fedelmente

Sono sempre stato incuriosito di come davvero fosse andato il mercato del lavoro intorno al periodo della famigerata legge Biagi (effettiva applicazione fine 2003).
Così ho tentato, data la mia non-competenza in materia, di fare un’analisi generica degli anni 1993-2007 con semplice enunciazione di dati e del periodo 2003-2007 leggendo e commentando i rapporti della Banca d’Italia e Istat.
Cosa ne è venuto fuori?
Vedrete.

Poco prima, qualche tabella fatta da me sui dati ISTAT; la prima riguarda l’andamento cronologico dei contratti permanenti e non riguardo al totale dei contratti dipendenti, la seconda riguarda la composizione di questi andamenti. Sotto anche qualche grafico e infine una tabella dell'andamento dei contratti dipendenti sul totale occupati.

2003
Cominciamo il nostro viaggio nel 2003, tra le varie considerazioni che sul rapporto sul mercato del lavoro della Banca d’Italia vengono fatte, ne ho estrapolate alcune per portarle con me nel mio viaggio; farò così per ogni anno analizzato.

“L’utilizzo di forme di rapporto contrattuale più stabili negli ultimi anni è riconducibile a vari fattori.
Tra il 2000 e il 2002 carenze di manodopera diffuse in molte aree del Paese e storicamente ampie possono aver accresciuto la probabilità dei lavoratori di ottenere posizioni a tempo indeterminato.
Un secondo fattore è rappresentato dalla riduzione delle uscite dal mercato del lavoro dei lavoratori cinquantenni, occupati prevalentemente in posizioni permanenti, anche per effetto dell’innalzamento dei requisiti di età per il collocamento a riposo previsto dalle riforme previdenziali degli anni novanta”

“Infine, fino al 2002 uno stimolo significativo è derivato dal credito d’imposta per l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori adulti, previsto dalla legge 23 dicembre 2000, n. 388, e sospeso nel luglio di quell’anno a causa del costo per l’erario, rivelatosi molto superiore alle previsioni”

Prima del 2003, in sostanza, il mercato del lavoro vive un bel momento, suffragato anche dai grafici, per il fatto che c’è carenza di manodopera, cioè c’è lavoro, ma non lavoratori, quindi il singolo lavoratore ha più potere e diventa più importante per l’azienda, in quanto diventa una risorsa scarsa.
Tutto questo unito al fatto che una insistente distorsione di mercato (il credito di imposta) favorisce ad assumere a tempo indeterminato.
Nel periodo in esame, nel 2003, tuttavia si consolida una discesa dell’occupazione iniziata già nel 2002; quindi non si naviga in buone acque.

2004
“Nell’area dell’euro alla moderata ripresa dell’attività produttiva ha corrisposto una lieve accelerazione dell’occupazione”
Bene direi, si ricomincia a produrre, si creano posti di lavoro, l’occupazione può riprendere (con il credito d’imposta ridotto tra l’altro).

“La quota dei lavoratori assunti con un contratto a tempo determinato, rispetto al totale dei dipendenti, è scesa di 0,5 punti percentuali nel 2004, all’11,8 per cento. La riduzione, in atto dal 2000, discende da fattori ciclici e strutturali (cfr. la Relazione sull’anno 2003); a essa non corrisponde un aumento della probabilità di trovare un lavoro con contratto a tempo indeterminato per i più giovani.”

Quindi, ricapitolando, il 2004 era il grande anno in cui dimostrare che il lavoro precario (tecnicamente è scorretto chiamarlo precariato, perché precariato e flessibilità non sono sinonimi), avrebbe invaso le nostre case e strappato via il cuore ai nostri figli.
Risultato? Diminuzione rispetto all’anno precedente del 3,2% dei contratti flessibili, temporanei o precari, come preferite chiamarli.

2005
Il 2005 è l’anno della ripresa, se osservate i dati vedrete chiaramente un’impennata dell’occupazione sia flessibile sia permanente, ma urge fare le seguenti osservazioni per inquadrare meglio i dati.

“Negli ultimi tre anni la crescita della domanda di lavoro si è progressivamente affievolita, riflettendo la debolezza dell’attività produttiva e un aumento del costo del lavoro, nel settore privato dell’economia, superiore a quello del deflatore del valore aggiunto, anche per il venir meno degli incentivi all’occupazione”

Negli ultimi tre anni (2002, 2003, 2004) la crescita della domanda si è affievolita riflettendo una cattiva congiuntura in produttività e in costo del lavoro.

“La riduzione dell’occupazione autonoma è di entità senza precedenti negli ultimi trent’anni ed è quasi interamente concentrata tra i coadiuvanti nelle imprese familiari (-25,7 per cento), i soci di cooperative (-28,3 per cento), le collaborazioni coordinate (-3,6 per cento) e le prestazioni d’opera occasionali (-24,3 per cento), posizioni ricoperte prevalentemente da giovani donne; tra il 2004 e il 2005 un quinto di questi occupati è uscito dalle forze di lavoro, il 14,9 per cento ha trovato un impiego permanente e un ulteriore 4,3 per cento uno temporaneo; i rimanenti non hanno cambiato posizione professionale. Lo spostamento di una parte di queste figure verso l’occupazione dipendente può essere legato all’utilizzo da parte delle imprese dei nuovi strumenti contrattuali previsti dalla cosiddetta legge Biagi (legge 14 febbraio 2003, n. 30), ma anche all’entrata a regime della Rilevazione sulle forze di lavoro che ha affinato la capacità di individuare con precisione la posizione professionale dei lavoratori. Nella media del 2005 i lavoratori autonomi occupati con contratti di collaborazione coordinata o di prestazione occasionale d’opera erano 457 mila, pari al 2,0 per cento dell’occupazione totale”

Vengono usate nuove modalità contrattuali e soprattutto affinate delle tecniche di rilevazione che portano ad aggiungere all’ammontare dei dipendenti temporanei alcuni lavoratori fino a quel momento considerati indipendenti.

“Sulla base della Rilevazione sulle forze di lavoro, si stima che tra coloro che nel 2004 erano occupati con un contratto di lavoro a tempo determinato (pari a 1.909 mila), dopo un anno il 51,4 per cento non aveva cambiato tipo di contratto, il 25,4 per cento aveva trovato un lavoro a tempo indeterminato, il 3,5 era occupato come lavoratore autonomo e il restante 19,7 per cento era uscito dal mercato del lavoro (tav. B22). Avevano trovato una posizione permanente con più facilità i maschi rispetto alle donne, i lavoratori di età compresa tra i 15 e i 34 anni rispetto a quelli più anziani, gli occupati del Nord e del Centro rispetto a quelli del Sud. Il tipo di contratto a tempo determinato incide fortemente sulla probabilità di trasformazione in lavoro stabile. Chi era stato occupato nel 2004 con un contratto a causa mista (contratti di formazione e lavoro o di apprendistato, che in media nel 2004 avevano una durata di 26 mesi) aveva una probabilità del 35,5 per cento di trovare un’occupazione a tempo indeterminato dopo un anno e una del 12,9 per cento di perdere il lavoro. Per gli stagionali e le persone con una delle altre forme contrattuali a tempo determinato le prospettive erano assai più precarie, anche per la breve durata dei rapporti di lavoro.”

Non sono anni evidentemente facili, considerando i tassi di trasformazione da contratti flessibili a contratti a tempo indeterminato: il 25,4% (sempre comunque meglio dei tassi di trasformazione del periodo 2003-2004, anni di flessione lavorativa dei cococo. Solo il 5% dei cococo viene trasformato a tempo indeterminato)

2006
“In un contesto di perdurante moderazione salariale, l’accelerazione dell’occupazione ha riflesso essenzialmente la ripresa dell’attività produttiva; l’impulso fornito dalla domanda di beni e servizi ha contrastato un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto ancora superiore a quello del deflatore del valore aggiunto. Per la prima volta
dal 1995 nel comparto della manifattura, dove il deflatore del valore aggiunto ha registrato un inusuale calo, la crescita dell’occupazione si è accompagnata con un aumento della produttività del lavoro.”

Si mantiene il ritmo del 2005 di ripresa della crescita della produttività.

“Nel 2006 solo meno della metà della maggiore occupazione alle dipendenze ha assunto la forma di impiego a tempo indeterminato, concentrandosi quasi esclusivamente al Centro Nord (169 mila persone); oltre un quarto del maggior numero di occupati a tempo determinato era invece residente nel Mezzogiorno (55 mila persone).
Il lavoro a carattere temporaneo, la cui quota sull’occupazione alle dipendenze è aumentata dal 12,2 al 13,1 per cento, riguarda per oltre metà le donne, che invece costituiscono solo il 41,3 per cento dell’occupazione a tempo indeterminato, e per circa due quinti i residenti nel Mezzogiorno (22,7 per cento dell’occupazione a tempo indeterminato).”


Precisamente flessibile il 51,3 e a tempo indeterminato il 48,7

2007
“Nel 2007 è proseguita la crescita dell’occupazione, anche se a ritmi inferiori a quelli elevati dell’anno precedente. Essa è stata sostenuta dall’espansione della produzione e favorita dalla perdurante moderazione salariale. Il tasso di disoccupazione è ancora sceso, riportandosi sui livelli dei primi anni ottanta. La crescita del numero degli occupati è stata in larga parte alimentata dalla componente straniera; è ulteriormente aumentata l’incidenza degli occupati a termine e a tempo parziale.”

Sembra dunque ragionevole pensare che gli stranieri concorrano ad incrementare il tasso di lavoratori flessibili (la maggior parte degli stranieri che giunge in Italia è diplomata ed ha lo status di operaio)

“Secondo l’indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia, nel biennio 2005-06, nonostante il lento andamento delle retribuzioni unitarie, il complesso dei redditi familiari netti è cresciuto a un tasso annuo del 2,1 per cento in termini reali, sospinto dalla crescita dell’occupazione. Il livello di disuguaglianza nei redditi familiari, quasi invariato
rispetto al 2004, si mantiene elevato nel confronto internazionale; esso riflette anche i notevoli divari di reddito tra le famiglie del Mezzogiorno e del Centro Nord.”

Bene dunque i salari, che crescono sospinti dall’occupazione

“Nel 2007 l’aumento dell’occupazione alle dipendenze ha riguardato per quattro quinti posizioni lavorative a tempo indeterminato (1,4 per cento, 206.000 persone). L’occupazione temporanea è cresciuta a un ritmo più sostenuto (2,1 per cento, 47.000 persone), raggiungendo il 13,2 per cento del totale dell’occupazione dipendente. Nel 2007 oltre il 90 per cento degli occupati a tempo determinato dichiarava di svolgere un lavoro a termine perché non aveva trovato un impiego permanente (erano l’80 per cento nel 2004).
Le posizioni di lavoro a termine hanno un’incidenza particolarmente elevata tra quanti trovano un impiego muovendo dalla condizione di inoccupato (fig. 9.2). Complessivamente gli occupati dipendenti a termine, i collaboratori a progetto e i lavoratori occasionali costituivano nel 2007 il 45,5 per cento di coloro che avevano trovato un impiego negli ultimi dodici mesi; l’incidenza è più elevata tra i giovani e sale al crescere del titolo di studio (58,2 per cento tra i laureati).”


Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i laureati sono più incidenti rispetto al resto dei lavoratori giovani sul lavoro flessibile.
La situazione migliora comunque rispetto all’anno precedente riguardo le quote di aumento del lavoro a tempo indeterminato.

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Finita l’analisi cronologica passiamo a qualche considerazione.

“Tra il 1995 e il 2000 l’incremento dell’occupazione era avvenuto per il 46 per cento in posizioni a termine, per il 42 per cento in posizioni a tempo indeterminato e per il 12 per cento in attività autonome”

Tra il 2001 e il 2006 invece l’incremento dell’occupazione è avvenuto per 48500 posti in posizioni a termine, per 245666 posti in posizioni a tempo indeterminato e per -21650 posti in posizioni di lavoro indipendente.
L’incremento sul totale del lavoro è stato di 272516 posti.
L’incremento indeterminato è avvenuto per il 90%, l’incremento flessibile per il 18%, mentre il decremento del lavoro indipendente è avvenuto per il -8%.
Inoltre l’andamento del grafico a barre mostra che i contratti a termine hanno avuto un’impennata tra gli anni 2005-2007, con un evidente segno di discesa progressiva nel 2007.

Può essere ragionevole pensare che la legge Biagi non abbia creato precarietà crescente poiché una legge simile era già stata introdotta nel 1997 con il nome di pacchetto Treu, nei primi anni si è visto un incremento del lavoro flessibile, mentre negli anni dal 2001 al 2004 si è assistito ad una crescita molto stagnante e talvolta ad una decrescita; di certo concorre alla crescita del lavoro temporaneo, ma non credo si possa stabilire un netto collegamento, anche perché un’impresa, secondo i modelli economici, funziona bene con un determinato numero di dipendenti, e perde produttività sia mancando sia eccedendo, di conseguenza è certamente giusto pensare che un abbassamento del costo del lavoro (i contratti della Biagi hanno un costo minore di un contratto a tempo indeterminato, ma non per questo sono utilizzati dalle aziende) possa concorrere ad aumentare il numero dei dipendenti, ma è scorretto supporre che le aziende ricorrano a questi contratti per motivi di costo, almeno nel nord-est, come rivela un’analisi effettuata dal sole24ore sui dati della cassa di risparmio di Padova e Rovigo e la fondazione Nordest: il campione interpellato è di 1000 aziende con più di 10 addetti, solo il 40% delle aziende interpellate ha usufruito dei nuovi contratti della Biagi.
Veniamo dunque alle motivazioni, solo il 13% delle imprese interpellate che ha usufruito delle nuove modalità contrattuali l’ha fatto per motivi di minor costo, mentre ben il 75,1% lo fa per motivi organizzativi dell’azienda, infine, la percentuale delle aziende che adottano contratti flessibili per esigenze del lavoratore è il 12,3%.
Sempre secondo l’indagine, il 70% degli imprenditori ha dei dubbi sul fatto che questa normativa abbia reso più flessibile il mercato del lavoro.
Dunque secondo questi dati, la legge Biagi non ha influito se non in minima parte sull’andamento dei contratti flessibili.

Inoltre sempre secondo un articolo basato su un rapporto di Confindustria sul mercato del lavoro 2007 http://www.provincia.lecco.it/documenti/rassegna/lavoro/venerdi.pdf la legge Biagi favorisce l’ingresso nelle aziende, come viene naturale pensare.

E’ invece totalmente fuori dalla realtà pensare che i contratti flessibili stiano sostituendo quelli fissi, affermazione che è infatti sconfessata dall’andamento mostrato nei grafici: di netta e costante crescita per il lavoro a tempo indeterminato e di altalenante crescita del lavoro a tempo determinato, d'altronde è anche facilmente comprensibile il perché il primo andamento sia più uniforme del secondo: i contratti a tempo determinato sono contratti che non vengono evidentemente usati con costanza, cioè non sono un fattore di norma del mercato, anche se sono certamente un fattore presente.

Se si osservano le percentuali su tutto il lavoro dipendente, si nota che piano piano i contratti flessibili hanno guadagnato terreno con alti e bassi (12,7 del 2000 e 11,8 del 2004), ma non bisogna cadere nell’errore di pensare che stiano erodendo le quote del lavoro indeterminato, anche perché , almeno nel 2005, l’aumento del lavoro a termine è influenzato dall’affinamento di nuove tecniche di rilevazione che erodono percentuali dal lavoro indipendente in favore del lavoro flessibile e tutto questo senza che possa esserci effettivo spostamento.

Se si considerano le percentuali della presenza di lavoro a tempo indeterminato e flessibile sul totale degli occupati, si può notare come sia aumentato il numero di contratti a tempo determinato e quello a tempo indeterminato sia rimasto invariato, se la matematica non è un’opinione, essendo stato considerato sino ad ora il lavoro dipendente, l’unica cosa che può bilanciare l’equazione è una diminuzione del lavoro indipendente.

Concludendo il tutto?
È aumentato il lavoro flessibile, il lavoro a tempo indeterminato non è stato eroso e il lavoro indipendente ha perso quote cedendole al lavoro flessibile (vedi rapporto 2005).
Quindi al massimo più che di una precarizzazione dei dipendenti si potrebbe parlare di una precarizzazione degli indipendenti, tutto il contrario di quello che si afferma oggi, ma anche qui bisogna andare con i piedi di piombo, perché è chiaramente scritto nel rapporto del 2005 (della Banca d’Italia sui dati Istat) che sono state modificate le tecniche di classificazione e rilevazione, quindi è perfettamente possibile che nessuno abbia eroso le quote di nessuno.

PS
RAPPORTO Banca d'Italia 2006
“Sulla base delle informazioni disponibili nella Rilevazione sulle forze di lavoro è possibile stimare che circa un quinto delle persone in cerca di lavoro trovi un impiego nei successivi tre mesi; la quota è intorno al 30 per cento per coloro che sono alla ricerca da meno di sei mesi. Circa un terzo delle persone che hanno trovato lavoro nei tre mesi precedenti dichiara di essere alla ricerca di un nuovo impiego, segnalando la difficoltà dei disoccupati a individuare un impiego consono alle proprie caratteristiche. Un sistema di ammortizzatori sociali contribuisce a rendere più efficiente questo processo di transizione, alleviando i costi connessi con la mancanza di reddito durante i periodi di disoccupazione; d’altra parte, se mal disegnato può determinare un prolungamento eccessivo del periodo di non occupazione. L’Italia si caratterizza per un sistema frammentato e con pochi controlli, che copre solo parte dei lavoratori ed eroga importi generalmente più bassi che negli altri paesi europei: nel 2005 le prestazioni sociali connesse con lo stato di non occupazione ammontavano complessivamente allo 0,6 per cento del PIL, contro una media di circa l’1,3 per cento nella UE; l’indennità ordinaria di disoccupazione ammontava al 50 per cento dell’ultima retribuzione (circa il 70 per cento nella UE).”

“Nel 2001 sono state modificate le indennità di disoccupazione ordinaria, con il prolungamento da 6 a 9 mesi della durata massima per i lavoratori con almeno 50 anni e l’aumento dell’indennità dal 30 al 40 per cento dell’ultima retribuzione mensile, un livello basso nel confronto internazionale. Nostre stime preliminari degli effetti di breve periodo di tali cambiamenti condotte con riferimento agli anni 1997-2002 sul Campione longitudinale degli attivi e dei pensionati (CLAP) indicano che la lunghezza del periodo di ricerca di lavoro non è correlata con la durata massima dell’indennità, mentre aumenterebbe per effetto dell’incremento della sua entità.”

Da precisare che gli ammortizzatori sociali ci sono.